Scuole cattoliche in Giordania
Piccoli miracoli tra i banchi

Viaggio nelle scuole cattoliche del Regno hashemita. Storia e attualità di una forma di presenza cristiana che ha sempre goduto di consenso sociale anche presso la maggioranza musulmana

di Gianni Valente

      Alle otto di mattina, come tutti i santi giorni, dopo aver bighellonato a lungo in attesa della campanella, i ragazzi del “Terra Santa” College si dispongono in file silenziose nel cortile della scuola, divisi per classe, sotto lo sguardo serio di Abuna Rashid, il direttore. Mentre il piccolo Khalid fa l’alzabandiera tirando su un vessillo “formato mini” della Giordania, tutti gli altri, cristiani e musulmani, invocano insieme l’unico Dio Padre di tutti («Signore, benedici noi, la nostra nazione e la nostra scuola. Illumina le nostre menti e dona a noi la pace»). Dopo parte la musica, e da bravi cittadini, chi con più ardore chi un po’ svogliato, intonano insieme l’inno nazionale («Viva il re, viva il re! Alta è la sua reputazione, sublime è il suo rango. In alto le sue bandiere!»). Poi sciamano allegri e rumorosi lungo corridoi e nelle classi dove, oltre ai crocifissi e ai ritratti di re Abdullah II, nelle ultime settimane sono comparsi anche i presepi, i Santa Klaus e le altre decorazioni del tempo di Natale. Nessuna mamma col velo, nessun papà frequentatore della moschea accanto hanno avuto niente da ridire.
      Su quello che ora è un ingresso laterale compare la scritta “1948”, anno di fondazione della scuola. Il Regno hashemita di Giordania muoveva i suoi primi incerti passi nel campo minato mediorientale e i padri della Custodia di Terra Santa sulla collina di Habdale avevano appena tirato su la loro scuola, ancora oggi una delle più prestigiose del Paese e di tutto il Medio Oriente. Il loro fondatore san Francesco, già nel 1221, nella sua prima regola, aveva parlato chiaro: i frati che vanno tra i musulmani «non facciano liti o dispute», ma siano al servizio di tutti. Consegna rispettata. A modo loro, anche le foto d’epoca appese ai muri – con un giovanissimo re Hussein circondato dai frati, poi con il principe Hasan e altri membri della casa reale in visita alle cerimonie ufficiali della comunità scolastica – esprimono l’ininterrotta gratitudine della giovane nazione islamica, retta da re che si proclamano discendenti di Maometto, per l’opera svolta dal collegio francescano e da tutte le altre scuole cristiane a profitto della gioventù araba d’Oltregiordano. «Andiamo fieri delle nostre scuole cristiane, per il contributo insostituibile che danno alla nostra società. Con loro non ci sono mai problemi. Sono sempre rispettose delle regole ministeriali riguardo al numero degli studenti per classe, ai programmi scolastici e ai libri di testo», confida compiaciuto e riconoscente Abd al-Majid al-Abbady, alto funzionario del Dipartimento per le scuole private del Ministero dell’Educazione.
      Se in molte società del Medio Oriente la presenza operosa dei cristiani rischia di apparire come un corpo estraneo in lenta ma inesorabile estinzione, la vitalità e il radicamento sociale delle scuole cristiane in Giordania diventano ipso facto un “caso” interessante.
     
      Una cosa buona per tutti
      A Karak, 130 chilometri a sud di Amman, il profilo del castello crociato svetta da lontano nel paesaggio desertico spoglio di ogni risorsa, sopra e sotto terra. Della fortezza, dove impazzava il sanguinario principe Reginaldo di Chatillon, simbolo funesto della cristianità in armi, rimangono ruderi malmessi. Invece è viva e piena di voci la piccola scuola del Patriarcato latino, proprio lì dove la fondò nel 1876 don Alessandro Macagno, il mitico Abuna Skandar, che predicava il Vangelo alle tribù di beduini cristiani sperduti oltre il Giordano vivendo come loro nella tenda, e portandosi dietro un altare mobile per celebrare l’eucaristia. A quel tempo il governatore ottomano non voleva concedere il permesso: furono gli abitanti del luogo, cristiani e musulmani insieme, a vincere le resistenze. Anche i beduini musulmani avevano capito che potevano aspettarsi solo cose buone da quell’uomo umile e pio che insegnava loro a leggere e a scrivere, mentre dei funzionari locali dell’apparato civile ottomano conoscevano solo la brutale ingordigia di prebende e mazzette.
 

Della fortezza, dove impazzava il sanguinario principe cristiano Reginaldo di Chatillon, rimangono ruderi malmessi. Invece è viva e piena di voci la piccola scuola del Patriarcato latino, proprio lì dove la fondò nel 1876 Alessandro Macagno, il mitico Abuna Skandar, che predicava il Vangelo ai beduini portandosi dietro un altare mobile per celebrare l’eucaristia

      Nella seconda metà dell’Ottocento, quelle fondate oltre il Giordano dai preti del neoeretto Patriarcato latino di Gerusalemme furono le prime scuole aperte in un mondo chiuso e marginale, tutto definito dalle grette leggi sociali del tribalismo. Insegnare agli ignoranti è un’opera di misericordia spirituale. E l’insegnamento offerto a tutti – cristiani e musulmani, poveri e ricchi, tribù del nord e tribù del sud – fu il passepartout che permise alla testimonianza apostolica di attecchire in terra arida, in zone rurali o desertiche, che per secoli non avevano visto nessuna iniziativa pastorale cattolica. Ancora oggi, a Karak come a Salt, a Hoson come ad Ajlun, ad Ader come ad Anjara, gli edifici delle scuole parrocchiali formano un corpo unico con la chiesa, e tutta l’attività educativa si svolge sotto la responsabilità ultima del parroco locale.
      Grazie alla loro pionieristica plantatio, le scuole cattoliche della Giordania hanno acquisito, da tempo, pieno diritto di cittadinanza nel Paese. Quando fu creato il Regno hashemita di Giordania, la rete scolastica del Patriarcato latino – presto affiancata dai grossi collegi inaugurati ad Amman da congregazioni religiose cattoliche – rappresentava ancora l’unico sistema educativo “autoctono” esistente.
      Oggi, nella Giordania attraversata da indecifrabili processi socioeconomici innescati anche dai conflitti vicini, pure l’educazione è diventata un business. La concorrenza è sempre più asfissiante. Nei sobborghi benestanti della capitale spuntano a ritmi frenetici nuove scuole private commerciali dai nomi roboanti e aggressivi: Modern American School, Cambridge School, Islamic College, al-Shweifat School… Per i professori e lo staff delle scuole cattoliche far bene il proprio mestiere – orizzonte discreto della propria ordinaria testimonianza cristiana – diventa anche garanzia di sopravvivenza economica.
      Al villaggio cristiano di Fuheis, nell’atrio della scuola sorta accanto alla parrocchia dedicata al Cuore immacolato di Maria, il ritratto della Vergine che accoglie chi entra sembra scrutare con materna curiosità il cartellone che le hanno messo accanto, con la lista dei più bravi che classe per classe hanno ottenuto i voti migliori agli scrutini di fine anno. Il costante monitoraggio pubblico del rendimento scolastico di ogni singolo studente, che si registra nelle scuole giordane, può apparire dall’esterno una sindrome “efficientista” ricalcata su modelli importati dall’estero. Una frenesia da risultato capace di innescare tra gli studenti feroci istinti competitivi e avvilenti frustrazioni. Ma è solo partecipando a tale gioco che le scuole cristiane dimostrano ancor oggi l’alto standard d’insegnamento che sono in grado di garantire. Un ingrediente essenziale per tener viva l’attrazione che le scuole cristiane ancora esercitano sulle famiglie musulmane. Ogni fine anno, il Ministero dell’Educazione stila le graduatorie dei dieci studenti più bravi nelle diverse materie. E ogni anno qualche studente delle scuole cristiane compare nelle prestigiose top ten, contribuendo così al lustro e alla fama della propria scuola. A Fuheis i nomi dei piccoli geni nazionali, sfornati anno per anno, li hanno addirittura incisi nella lastra di marmo fuori dall’ingresso della scuola, cimelio prezioso da ostentare senza ipocrite modestie.
     
      Adeste infideles
      Abuna Bashir passa come un tuono con la sua tonaca svolazzante per i corridoi pieni di sole della scuola parrocchiale di Ader. Scherza coi bambini, mostra le foto delle gite e il locale adibito per la scuola di cucito, fa capolino anche nella classe dove una maestra col velo ha raccolto i bambini musulmani per la lezione di Corano. «Stanno facendo il loro catechismo…», scherza il giovane parroco. «Qui da secoli sappiamo che per non litigare coi musulmani è meglio non parlare di dottrina e non fare discorsi religiosi. I genitori musulmani ci tengono a mandare i loro figli nelle nostre scuole. Sanno che qui trovano un ambiente differente, dove i figli crescono bene e nessuno vuole imporre niente a nessuno». Una vecchia consuetudine, che non tutti capiscono. «Tempo fa, un missionario protestante americano voleva sapere quanti musulmani avevo battezzato qui nell’ultimo anno. Gli ho detto che convertire i musulmani non è un problema mio. Allora mi ha chiesto quali fossero i miei problemi. Gli ho risposto che speravo di aiutare i cristiani a essere contenti di essere cristiani. E basta».
 
La parrocchia di Cristo Re a Misdar, nel centro di Amman
       Le statistiche più recenti rivelano che nell’anno scolastico 2005-2006 poco meno della metà dei più di 23mila studenti delle scuole cattoliche in Giordania erano bambini e ragazzi di famiglie musulmane. Oltre un quarto dei quasi 1.900 impiegati – docenti e non docenti – delle scuole cristiane sono anch’essi seguaci del Profeta. La regola tacita di tenersi alla larga da ogni controversia religiosa è per le scuole cristiane un dato iscritto nel proprio dna, eredità di secoli di ininterrotta, seppur difficile, convivenza tra le tribù islamiche e quelle cristiane d’Oltregiordano. Ma la ferma determinazione a prevenire conflitti confessionali non si traduce in velleitari tentativi di creare ambienti religiosamente “sterilizzati”. Si affida piuttosto a consuetudini pratiche distillate in decenni di esperienza dal buon senso cristiano: messa al bando di ogni proselitismo diretto o subliminale, insegnamento religioso separato per cristiani e musulmani, preghiere comuni con cui tutti possono invocare la misericordia di Allah, Signore di tutti. Un congegno di discrezione e delicatezza calibrato per favorire la convivenza quotidiana, per disinnescare la spirale del sospetto nelle pieghe della vita ordinaria. Nella speranza di spargere antidoti all’intolleranza, anche fuori dalle aule di scuola. «Il nostro motto è: amici a scuola, amici nella società», dice baldanzoso Abuna Rifat Bader, autore di un cliccatissimo sito internet di informazioni in arabo sulla vita della Chiesa (www.abouna.org) e responsabile della scuola di Wassieh, la più giovane tra le scuole del Patriarcato latino. «Quando uno ha studiato da noi e si è trovato bene, è difficile che poi vada in giro a parlar male dei cristiani…». Una scommessa confortata da tanti piccoli miracoli quotidiani che vede accadere nelle aule, nel cortile e nei corridoi della sua bella scuola spuntata nel deserto sei anni fa, durante l’anno giubilare. Mentre lui parla, il coro della scuola prova la recita per il Natale, ripassando le scene, le filastrocche e i canti natalizi in arabo, in inglese, in italiano. Raccontano per cenni anche una storia di duemila anni fa, un bambino nato una notte fredda in una mangiatoia, non lontano da qui. A cantare sono una trentina di bambini. Quasi la metà di loro sono musulmani.
     
      L’inno di fratel Emile
      All’ingresso del prestigioso “De La Salle” College dei Fratelli delle scuole cristiane il ritratto di papa Ratzinger campeggia circondato da quelli di re Hussein e di re Abdullah. Fratel Emile, creativo direttore del collegio, ha addirittura messo in musica un inno in onore del monarca hashemita. Il religioso di origine libanese esalta gli effetti stimolanti che, a suo avviso, la convivenza tra cristiani e musulmani produce anche dal punto di vista educativo («sfregate il vostro cervello con il cervello altrui, e la fiamma si sprigionerà»). Ma spiega senza reticenze anche la sua devota deferenza verso le autorità civili: «Noi viviamo una vita tranquilla perché il re, la famiglia reale e anche il governo sono con noi. L’ex primo ministro e molti ministri sono stati nostri allievi. L’attuale primo ministro ha mandato i suoi figli a scuola da noi. Fino a che c’è il re, non abbiamo paura». Anche suor Emilia snocciola i nomi di Alia, Aisha e Zayn, le principesse figlie di re Hussein che sono diventate grandi tra i banchi della scuola delle suore del Rosario che lei oggi dirige. Vive senza rimpianti e mugugni la sua vocazione cristiana vissuta al servizio delle ragazze musulmane di Giordania. Squaderna con soddisfazione gli articoli e le foto coi membri della casa reale e le massime autorità del Paese che presenziano ai graduation days della scuola. E scuote la testa davanti alla crescente ottusità occidentale nel cogliere i fattori in gioco nel delicato rapporto tra maggioranza islamica e minoranze cristiane arabe in Medio Oriente. «I problemi», dice, «ci sono venuti da fuori. E comunque la casa reale sa come fronteggiarli nel modo migliore».
       La fortuita e provvidenziale benevolenza degli hashemiti verso tutte le scuole cristiane del Regno non si esprime solo nella generosa disponibilità a presenziare a inaugurazioni e galà di fine anno. Da quando, a partire dalla metà degli anni Settanta, i Fratelli musulmani – che in Gordania hanno sempre avuto totale libertà d’azione – hanno puntato all’egemonia nel campo educativo come strumento dell’islamizzazione militante della società, la casa reale non ha esitato a declinare il suo ruolo equilibratore in misure concrete. Alla fine degli anni Novanta, quando nelle università i professori legati ai Fratelli musulmani scelsero ad arte come data per gli esami il 25 dicembre, re Abdullah diede immediata soddisfazione alle proteste dei cristiani trasformando il Natale e il capodanno in giorni festivi per tutta la nazione. Nella programmazione settimanale le attività delle scuole cristiane sono sospese sia il venerdì che la domenica, e ogni scuola può godere di un giorno di festa quando cade la memoria del proprio santo patrono.
      L’altra faccia di tanta regale predilezione è l’assoluta aderenza ai programmi scolastici ministeriali da parte delle scuole cristiane. Jadun Salameh, 28 anni da professore di arabo nelle scuole cristiane, è l’immagine vivente di questo rasserenante rispetto delle circostanze date. Ha insegnato per tutta la vita e senza imbarazzi una materia fondamentale per tutti i curricula scolastici, basata in gran parte sul Corano e sugli scritti del Profeta, radici religiose di quella civiltà islamica dove lui e tutti i cristiani arabi vivono immersi. La familiarità piena di rispetto acquisita con gli scritti sacri e le concezioni religiose musulmane («qualcuno stentava a credere che sono cristiano») lo hanno aiutato a decifrare anche la complicata partita a scacchi che ancora si gioca intorno all’ispirazione coranica dei libri e dei programmi scolastici.
 
Laboratorio scientifico del “Terra Santa” College
      La strategia dei Fratelli musulmani sulle scuole ebbe il suo coronamento tra il 1989 e il 1990, quando, sia pur per pochi mesi, i militanti del “risveglio” islamico in Giordania ottennero il controllo del Ministero dell’Educazione. Ma già da tempo l’inserzione massiccia di dosi di Corano nei testi scolastici e la martellante esaltazione della “conquista islamica” rispondevano ai cliché della propaganda islamista, con tanto di richiami al jihad contro i miscredenti. Ma negli ultimi anni, dopo l’accordo di pace con Israele (1994) e ancor più dopo l’11 settembre, la deriva islamista dei programmi scolastici sembra aver subìto una battuta d’arresto. Un ribaltone palesemente ispirato dalla casa reale.
      Nel novembre 2004, un anno prima degli attentati nella capitale giordana, re Abdullah aveva lanciato il famoso “Messaggio di Amman” allo scopo di «chiarire al mondo cosa è e cosa non è il vero islam».  Un’iniziativa con cui la dinastia hashemita puntava a riaffermare la propria funzione di interprete e garante della «retta comprensione» della fede islamica, presentata come «un messaggio di fratellanza e umanità, che sostiene ciò che è buono e proibisce ciò che è sbagliato, accettando gli altri e onorando ogni essere umano». L’applicazione di tale indirizzo in campo scolastico ha prodotto la progressiva scomparsa nei libri di testo delle poesie, dei propagandismi storici e delle citazioni coraniche a rischio di strumentalizzazione fondamentalista. «Adesso», racconta Jadun Salameh, «nei libri trovi solo versetti coranici concilianti, in cui si esalta la bellezza della creazione e della convivenza pacifica tra i popoli. Nessuna traccia di guerre sante, nessun richiamo a sottomettere all’islam i miscredenti…».
     
      Un aiuto discreto
      Se nelle scuole cristiane la convivenza fattiva tra cristiani e musulmani batte sentieri antichi già collaudati da secoli di vita comune, nel vissuto quotidiano del Regno tali esperienze rischiano di apparire sempre più come isole felici, enclave residuali di un passato da rimpiangere. Si sa bene – non c’è neanche bisogno di dirlo – che anche qui, negli ultimi decenni, qualcuno ha progressivamente avvelenato i pozzi di relativa tolleranza che irrigavano una coesistenza più che millenaria. Niente è più come prima. Trascolorano gli antichi riti di “assuefazione” reciproca che regolavano i rapporti tra tribù cristiane e musulmane al di là del Giordano. Gli stessi studenti delle scuole cristiane, quando passano alle università statali, subiscono l’assedio intimidatorio di professori e colleghi zelanti, induriti nelle proprie certezze, che si sentono chiamati a indottrinare i “poveri stolti”, figli della nazione giordana, che davvero credono che Gesù è il Figlio di Dio. Il movimentismo islamista, l’invasiva militanza religiosa esercitata nella vita pubblica, diventa per molti di loro un mobbing spirituale asfissiante.
 

Le scuole cattoliche svolgono così la loro missione più intima e meno sbandierata: rendere facili, sereni, senza complessi, i primi passi nella vita sociale di tanti bambini e ragazzi cristiani. Senza costruire fortini assediati

       Proprio davanti a questa evoluzione le scuole cattoliche sanno di svolgere la loro missione più intima e meno sbandierata: rendere facili, sereni, senza complessi, i primi passi nella vita sociale di tanti bambini e ragazzi cristiani. Senza costruire fortini assediati, in un ambiente aperto, facendoli crescere fianco a fianco coi propri coetanei musulmani. Permettendo loro di godere, senza neanche accorgersene, dei frutti di ordinaria gratuità che la carità cristiana fa brillare nel campo solito delle occupazioni più abituali. Prima che arrivino le difficoltà e i tempi della prova.
      Per padre Hanna Kildani, responsabile delle scuole del Patriarcato latino d’Oltregiordano, tutto questo vuol dire anche combattere ogni giorno con conti sempre più in rosso. Tra le ricadute economiche del caos mediorientale si registra anche la falcidia degli stipendi di quella classe media a cui apparteneva buona parte delle famiglie cristiane, che consideravano le scuole del Patriarcato come le “proprie” scuole. Sono sempre di più quelli che chiedono l’esenzione parziale o totale da rette già abbondantemente insufficienti a coprire i costi della gestione ordinaria. Il generoso sostegno economico garantito dai Cavalieri del Santo Sepolcro sparsi in tutto il mondo non riesce più a rattoppare le falle di bilancio. «Il deficit annuale delle scuole patriarcali sta crescendo vertiginosamente. Solo in Giordania ha raggiunto i due milioni di dollari. Ma per il nostro patriarca Michel Sabbah provvedere all’educazione dei ragazzi di tutte le denominazioni cristiane è una priorità inderogabile, se si vuole frenare anche l’emigrazione dei cristiani da queste terre. Vogliamo evitare in tutti i modi che le famiglie cristiane abbandonino le nostre scuole perché non ce la fanno coi soldi», spiega Nader Twal, responsabile della comunicazione per il Dipartimento dell’educazione del Patriarcato latino. Qualche genitore se ne approfitta. Altri fanno quello che possono, magari ripristinando il vecchio metodo del pagamento in natura a base di once di olio d’oliva. Ma l’emergenza è affrontata senza eccessi allarmistici da padre Hanna e dai suoi collaboratori. Come i loro antenati, abituati alla vita precaria delle tende beduine, sanno bene che le cose poi si aggiustano, se Allah vuole.


 

 

Iscrizioni in aumento, conti in rosso
Radiografia di un caso

di Gianni Valente

      I numeri di un fenomeno. Gli istituti educativi cristiani in Giordania sono 93: 44 asili d’infanzia e 49 scuole. Di queste ultime, 44 sono le scuole cattoliche: 24 scuole del Patriarcato latino di Gerusalemme (che estende la sua giurisdizione su Israele, Palestina e Giordania), 10 del Patriarcato melkita, una degli armeni cattolici, 8 dirette e gestite da congregazioni religiose latine (Francescani, Lasalliani, Suore di San Giuseppe e Suore del Rosario, la congregazione femminile nata in Palestina che gestisce ben 5 istituti d’istruzione). La scuola più antica della Giordania è quella di Salt, fondata nel 1869 dal prete del Patriarcato latino Jean Morétain in una casupola abbandonata. La più recente è la scuola secondaria inaugurata nel 2000 a Wassieh, nel sud depresso del Paese: 36 aule, laboratori, sale d’incontro, teatro, palestre.
      Nell’anno scolastico 2005-2006 le scuole cattoliche sono state frequentate da 23.670 studenti, di cui 12.502 cristiani (52 per cento del totale) e 11.168 musulmani. Per quanto riguarda il personale docente e amministrativo, l’ultimo dato disponibile, relativo all’anno 2002, contava nell’insieme delle scuole cristiane 1.842 dipendenti, di cui 1.280 cristiani e 562 musulmani, ai quali vanno aggiunti i sacerdoti, le suore e i religiosi. La direzione dei singoli istituti gode di piena libertà nella selezione e nell’assunzione del proprio personale, quando siano garantiti i requisiti professionali richiesti dai diversi incarichi.
      Un dato emblematico si registra concentrando l’attenzione sulle scuole del Patriarcato latino: dei 58 istituti educativi patriarcali – scuole e asili – ben 40 sono attivi in Giordania (in Palestina ce ne sono 13 e 5 in Israele).
      Se invece si allarga lo sguardo a tutto il Medio Oriente e all’Africa del nord, anche il confronto con gli altri Paesi arabi riserva sorprese. Rispetto ai 93 istituti educativi cristiani presenti in Giordania solo il Libano (341) e l’Egitto (130) ne ospitano un numero maggiore. Ma si tratta di Paesi abitati da comunità cristiane autoctone con milioni di fedeli. In Giordania i battezzati non superano i 120mila, e rappresentano meno del 4 per cento della popolazione nazionale.
      La popolazione scolastica delle scuole cattoliche giordane (dati 2006) risulta distribuita quasi equamente tra maschi (11.944) e femmine (11.726). Se si considerano le fasce di età, la maggioranza degli alunni (12.537) risulta concentrata nei primi 6 dei 14 anni del curriculum scolastico nazionale (corrispondenti alle elementari). 5.911 studenti frequentano le classi del ciclo intermedio (dalla settima alla decima classe), mentre 2.249 seguono i corsi dei due bienni finali, prima dell’esame finale (tawjihi) che funziona anche come prova di selezione per accedere alle facoltà a numero chiuso delle università. Una media del 90 per cento degli studenti delle scuole cattoliche conseguono l’abilitazione ai corsi universitari.
     
      Rapporti con il governo. Un accordo tra il Ministero dell’Educazione e il Segretariato generale per le istituzioni educative cristiane in Giordania ha stabilito come giorni festivi per tutte le scuole cristiane le solennità di Natale, Epifania, Pasqua e Ascensione. Le scuole cristiane, come le altre scuole private (comprese quelle islamiche) non ricevono alcun sostegno economico diretto dal governo. La possibilità di introdurre l’insegnamento della religione cristiana nelle scuole statali, affermata in linea di principio dal governo fin dal 1996, non ha finora avuto realizzazione pratica sul piano tecnico-amministrativo.
     
      Effetti collaterali. Il caos iracheno e la cronica crisi israelo-palestinese mettono in sofferenza anche l’esistenza delle scuole cristiane in Giordania. Il costo della benzina (che prima arrivava praticamente gratis dall’Iraq) triplicato solo nell’ultimo anno, e l’impennata del mercato immobiliare (destabilizzato dai massicci investimenti finanziari dirottati in Giordania dall’élite irachena) sono solo alcuni dei fattori che causano la progressiva inarrestabile erosione del ceto medio impiegatizio, tradizionale “fruitore” delle istituzioni educative cristiane. Le rette annuali delle scuole del Patriarcato latino, che sono le più basse, oscillano tra i 150 e i 200 dinari, pari alla metà del costo reale sostenuto per ogni singolo studente. Ma cresce a ritmi esponenziali la fascia di famiglie che non riescono a sostenere neanche questo, sia pur parziale, contributo ai bilanci scolastici. Il crescente deficit delle scuole giordane (2 milioni di dollari per il 2006) costituisce la metà del “rosso” complessivo accumulato dalle scuole patriarcali. Un buco coperto ogni anno solo grazie agli aiuti dei Cavalieri del Santo Sepolcro e di altri amici donatori, come l’Holy Land Ecumenical Foundation, il Cambridge Nazareth Trust e il cardinale Carlo Maria Martini, che nel 2003 aveva messo in moto una rete di solidarietà capace di far affluire alle casse delle istituzioni scolastiche patriarcali 64mila dollari.
      Nonostante le difficoltà, negli ultimi dieci anni il Segretariato per le istituzioni educative cristiane in Giordania è riuscito a garantire l’introduzione dell’assicurazione sanitaria per i propri dipendenti.

 


 

Intervista con Khalid Tuqan, ministro giordano dell’Educazione e della Ricerca scientifica
I lieti ricordi di un ex alunno

Intervista con Khalid Tuqan di Gianni Valente

      Khalid Tuqan, 52 anni e tre figli, è lo stimato ingegnere nucleare che fin dal 2000 – insolito caso di longevità politica nella vita movimentata dei dicasteri del governo giordano – è alla guida del Ministero nazionale dell’Educazione. Nel 2005 sono state affidate alla sua competenza anche l’istruzione superiore e la ricerca scientifica. Nel suo prestigioso curriculum (è anche presidente della Commissione giordana per l’energia nucleare) figurano lauree e specializzazioni scientifiche conseguite presso rinomate università americane. Ma anche il suo brillante itinerario umano e professionale ha avuto come punto di partenza l’esperienza delle scuole cristiane di Giordania. Anche lui, che secondo indiscrezioni coltiva interessi per il  sufismo, da ragazzo ha studiato presso il  “Terra Santa” College dei padri francescani.  
     
 

Il ministro giordano dell’Educazione Khalid Tuqan con padre Rashid Mistrih, direttore del “Terra Santa” College
      Allora anche lei, che oggi governa come ministro dell’Educazione tutte le scuole del Regno, è un ex allievo delle scuole cristiane di Giordania…
      KHALID TUQAN: Il  “Terra Santa”  College è un’istituzione educativa di tutto riguardo, che fornisce un’educazione al passo coi tempi. Era ed è rimasta una delle scuole giordane più serie e autorevoli, con standard di livello internazionale. Ma le sue tradizioni educative sono anche radicate nei valori che sono alla base della nostra società, della sua tradizione e della sua cultura. È un modello di rispetto della disciplina e della legislazione sull’educazione. Il suo staff direttivo ed educativo è di altissimo livello e ci tiene a far sì che i propri studenti ottengano degli ottimi risultati.
      I rapporti tra gli alunni sono basati sull’amicizia, l’affetto e il rispetto, e il ricordo di quel clima è tuttora presente nella mia mente. Le relazioni tra gli insegnanti e gli alunni si fondavano sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sulla responsabilità comune. Gli insegnanti esortavano sempre gli alunni alla buona educazione, ai valori morali e nobili, e a cercare di raggiungere risultati accademici eccellenti.
      Quella scuola ha ancora oggi un posto speciale nella mia memoria, e ne conservo dei bellissimi ricordi.
      Come giudica il ruolo svolto dalle scuole cristiane nella società giordana?
      TUQAN: Le scuole cristiane sono una componente essenziale delle scuole private del nostro Paese. Sono pienamente integrate nella filosofia educativa giordana, con qualche elemento originale in materia di educazione religiosa. Il programma educativo giordano è il punto di riferimento obbligatorio per tutte le scuole del Regno hashemita di Giordania, che lascia spazio anche alla scelta di alcuni istituti di arricchire tale programma aggiungendo libri integrativi di supporto. I testi usati sono stabiliti e autorizzati dal Consiglio per l’educazione e l’insegnamento, e valgono indifferentemente sia per le scuole cristiane che per le altre scuole giordane. Le scuole cristiane sono tra le più rispettose, ordinate e disciplinate e il loro contributo nella società è molto positivo. Esse, oltre ad avere la responsabilità di educare e sostenere il peso dell’insegnamento degli alunni, assicurano un’educazione sociale moderna radicata nei valori del bene e dell’amore secondo il messaggio di Cristo – che la pace sia con Lui – e di tutti i profeti dell’umanità.
      Più in generale, come giudica la condizione delle minoranze cristiane in Giordania?
      TUQAN: I cristiani di qui sono figli della Giordania e condividono le responsabilità della comune cittadinanza come tutti gli altri giordani. Attraverso la ricchezza dell’educazione ricevuta, sono cresciuti assimilando l’identità e la tradizione di questa patria, alla quale sono orgogliosamente attaccati. Il fatto di essere una minoranza non diminuisce i diritti che la Costituzione garantisce a loro come a tutti gli altri concittadini.
      Come sapete già, la religione cristiana comporta lo sguardo aperto alla trascendenza, la nobiltà d’animo, il perdono e il rispetto reciproco e questo si riflette nello spirito e nella pratica delle comunità educative delle scuole cristiane, sia tra gli insegnanti che tra gli alunni. Si valorizzano i molti punti in comune tra la religione musulmana e il cristianesimo e questo assicura la convivenza in pace, amore e fratellanza.
      La nostra storia islamica è ricca di esempi che nei secoli hanno testimoniato l’attitudine all’incontro, alla pace e alla collaborazione. Laddove ci sono delle questioni da chiarire, allora esse sono sottoposte a discussione nel dialogo e nello scambio di opinioni, in modo civile e lontano da fissazioni, con il rispetto reciproco per le convinzioni dell’altro e con la sollecitudine condivisa per il bene della patria.
      I cristiani d’Oriente hanno vissuto da sempre con i popoli della regione, godendo dei loro diritti religiosi e civili. Sono figli nativi di questa parte del mondo, condividono i problemi e sostengono le cause comuni dei loro rispettivi Paesi.
      Molti genitori musulmani preferiscono far studiare i propri figli nelle scuole cristiane. Come mai?
      TUQAN: Di solito, quando i genitori vogliono iscrivere i loro figli nelle scuole e possono scegliere tra diverse opzioni, prendono in considerazione il livello accademico e i servizi educativi che una scuola può offrire. È noto che le scuole cristiane in Giordania hanno una buona reputazione e garantiscono un alto livello nell’insegnamento. Questo si traduce in un’alta richiesta d’iscrizioni, anche senza prendere in considerazione la religione, perché la ragione principale che ispira la scelta è l’aspetto educativo.
      Per i genitori musulmani, il mandare i propri figli alle scuole cristiane è correlato con la buona reputazione e l’alta fiducia di cui tali scuole godono presso tutte le famiglie. Per i genitori cristiani, oltre alle considerazioni già menzionate, forse l’altro fattore determinante è l’educazione religiosa che si impartisce nelle scuole cristiane. Loro tengono molto a un’educazione tradizionale, che trasmetta l’osservanza delle pratiche e degli insegnamenti, perché desiderano che i propri figli siano dei credenti.


 

 

Intervista con il vescovo Salim Sayegh
Elogio del lavoro fatto bene

Intervista con Salim Sayegh di Gianni Valente

      «Da queste parti il Signore capisce l’arabo, anzi lo parla». Per Salim Sayegh, vicario patriarcale del Patriarcato latino per la Giordania, le scuole cristiane nel Paese sono la prova che le opere buone possono suscitare buona accoglienza in ogni contesto, senza bisogno di alzare muri di difesa. Ai suoi occhi il loro successo non nasconde nessun segreto particolare. «Evidentemente», dice ammiccando, «vengono così apprezzate da tutti perché lavorano bene».
     

Il vescovo Salim Sayegh durante una cerimonia a Wadi Karrar, in quello che gli archeologi giordani indicano come il luogo del battesimo di Gesù
      Le scuole cristiane Oltregiordano sono un pezzo fondamentale della storia della nazione…
      SALIM SAYEGH: Il Patriarcato latino è stato pioniere nel campo dell’insegnamento in Giordania. Fin dal tempo dei turchi, dovunque arrivassero i preti del Patriarcato latino, la prima cosa che facevano era la scuola. Insegnare alla gente a leggere e a scrivere. Adesso la situazione è diversa. Il Ministero dell’Educazione è ben organizzato, ci sono scuole in tutta la Giordania, comprese tante scuole private che funzionano a meraviglia.
      E in questo nuovo contesto qual è la missione specifica delle scuole cristiane?
      SAYEGH: Prima di tutto possono aiutare tutta la nostra brava gente, musulmani e cristiani, a non chiudersi in un ghetto. Per cristiani e musulmani è una ricchezza poter vivere insieme i primi anni di studio e poi anche le scuole secondarie. È un mescolarsi che fa bene alla vita sociale.
      Solo questo?
      SAYEGH: Le scuole sono il mezzo più importante che ci troviamo tra le mani per educare i nostri bambini alla fede cristiana, per introdurli nella vita parrocchiale e nella vita liturgica. Anche oggi molti dei seminaristi di Beit Jala [il seminario patriarcale, ndr] hanno frequentato da piccoli e da ragazzi le scuole cattoliche della Giordania.
      Le scuole cristiane hanno sempre goduto del favore della monarchia hashemita. Le cose potrebbero peggiorare se cambiasse l’assetto politico del Paese?
      SAYEGH: Non credo. Noi viviamo in Oriente, e l’Oriente è tradizionalista. Avere le nostre scuole rientra per così dire tra i diritti acquisiti, che nessuno si sentirebbe contestare. Anche quando i ministri erano legati ai Fratelli musulmani non hanno mai accennato a mettere in discussione il ruolo riconosciuto delle scuole cristiane. E poi, diciamo la verità: la Giordania è un Paese povero, e quando le scuole cristiane si accollano la responsabilità di istruire ed educare più di 20mila alunni, per i quali le istituzioni statali non sborsano un dinaro, questo è un sollievo anche per il governo.
      Molti anni fa lei ci disse che in Giordania anche i Fratelli musulmani non erano un pericolo. Continua a pensarlo?
      SAYEGH: I Fratelli musulmani in Giordania non hanno mai fatto ricorso alla violenza. Ci sono tanti di questi che vengono definiti fondamentalisti, ma sono brava gente che vuole solo vivere la propria fede. Ne conosciamo tanti, con alcuni di loro siamo molto amici, ci facciamo visita reciprocamente, ciascuno rispetta l’altro e non c’è nessuna difficoltà. Poi tra loro ci sono anche degli altri che sono arrivisti, che cercano di guadagnare una posizione, ma a noi questo non interessa. Infine, tra i più rozzi e ignoranti c’è qualcuno aggressivo. Questo capita. È normale. Sono cose della vita. Ma l’atteggiamento cattivo e di inimicizia verso i cristiani non è la regola, è l’eccezione. Per questo esistono le prigioni: sono per la gente cattiva che non vuol rispettare la legge.
      In Europa molti sostengono che bisogna rispondere al risveglio islamico con fermezza. Ed esigere la reciprocità.
      SAYEGH: Bisogna essere obiettivi. Qui noi arabi cristiani siamo la minoranza. Qui il “boss” è musulmano. Quando i musulmani vanno in Europa trovano altri boss. Ma nel nostro Paese il boss ha aggiustato le cose in modo molto equilibrato. Vi cito un esempio che sarebbe impensabile in Europa: qui in Giordania su centoventi seggi del Parlamento, per legge nove devono essere assegnati a cristiani, altri invece spettano ai circassi, ai beduini e alle altre minoranze, in modo che tutti siano garantiti nei propri diritti.
      Sta dipingendo un quadro idilliaco.
      SAYEGH: I problemi nascono con i matrimoni tra cristiani e musulmani. Lì entra in ballo la religione. Se una cristiana si sposa con un musulmano e non si converte all’islam, non ha diritto all’eredità e non può comunque educare i bimbi come vuole e, se muore il marito, non può tenere i figli. Ma questa è la legge, che favorisce sempre il coniuge musulmano. Per questo noi non diamo mai la dispensa a matrimoni misti di questo genere.
      Intanto, ai vostri confini il Medio Oriente è in fiamme. E molti in Occidente danno la colpa all’islam.
      SAYEGH: L’Occidente non ha mai capito cosa è l’islam e cosa sono i musulmani. Altrimenti avrebbe agito diversamente sulla questione palestinese, che si trascina da quasi un secolo. Avrebbe agito diversamente sulla questione irachena. E a voler mettere la gente sotto i piedi, come è successo in Iraq o in Palestina, ecco cosa succede.


 

 

Scuole cattoliche in Giordania
Giocando di sponda

La discrezione e l’adattamento alle mutevoli circostanze politiche hanno segnato fin dai tempi apostolici le vicende dei cristiani nelle terre oltre il Giordano. Un’attitudine accomodante che fino a oggi ha funzionato. Ma adesso…

di Gianni Valente
 

Liturgia di suffragio nella chiesa ortodossa di Amman per le 57 vittime degli attentati che hanno colpito la capitale giordana nel novembre 2005
      Nell’atrio della scuola di Anjara, nel nord della Giordania, un murale naïf ritrae Gesù tenuto per mano da Maria e Giuseppe davanti alla loro casa in Galilea. La scritta in arabo riporta le parole del Vangelo di san Luca, dopo che la Madonna ha rimproverato suo figlio, appena ritrovato tra i dottori del Tempio, per essersi allontanato senza avvertire: «Partì dunque con loro e tornò a Nazareth e stava loro sottomesso». Esempio di filiale mansuetudine suggerito non troppo subliminalmente agli alunni vivaci che rumoreggiano nelle aule. Ma anche immagine dell’analoga flessibile docilità davanti alle circostanze della storia e al succedersi dei poteri mondani che traspare nell’intera vicenda del cristianesimo in Giordania.  
      Oggi nel Regno hashemita i battezzati sono poche decine di migliaia. Ma nelle terre oltre il fiume dove Gesù ricevette il battesimo da Giovanni Battista la fede cristiana non è mai stata straniera. A Gadara, le cui rovine si trovano vicino l’odierna Umm Qays, arrivò Gesù stesso e guarì i due indemoniati nell’episodio narrato nel Vangelo di Matteo. Mentre san Paolo avrebbe attraversato il Paese nel suo viaggio in Arabia, così come attestato dalla Lettera ai Galati. In una grotta scoperta ad Ader, nella proprietà della locale parrocchia di San Giuseppe, sono visibili alcune croci dipinte che secondo gli esperti dello Studium biblicum franciscanum accreditano la piccola caverna come luogo di incontro di cristiani già nel I secolo. Ma sono soprattutto le rovine di innumerevoli chiese del IV e del V secolo sparse in tutta la Giordania ad attestare che a quell’epoca il cristianesimo giordano era fiorente nei centri urbani ellenizzanti.
      In quel periodo vescovi di città come Filadelfia (l’attuale Amman), Esbus e Aila (l’attuale Aqaba) prendono parte al Concilio di Nicea. La fede in Gesù raggiunge anche quel che rimane dell’antico popolo dei Nabatei, la cui antica capitale Petra avrà la sua cattedrale nel 447. Fuori dai centri urbani diventano cristiane anche alcune tribù arabe nomadi o seminomadi del deserto. Nella prima metà del VII secolo, quando le incursioni dei cavalieri arabi danno inizio alla conquista islamica, alcuni di questi clan tribali stringono alleanze con gli invasori consanguinei, assicurandosene così la protezione mediante il pagamento di tributi. In particolare l’ancor oggi influente tribù di al-Azeizat (“i rinforzi”) combatté al fianco delle milizie del Profeta guadagnandosi il nome e il duraturo rispetto dei nuovi dominatori. Nei secoli successivi, mentre le città ellenizzanti si spopolano e decadono, per secoli un’esile presenza cristiana nei territori d’Oltregiordano sopravvive grazie a queste tribù marginali, in un’area divenuta anch’essa marginale dopo il trasferimento del califfato a Baghdad. L’artificiale ed effimero insediamento dei principati crociati d’Oltregiordano non modifica la situazione sul campo. Solo con l’arrivo degli Ottomani ritorna nell’area una parvenza di amministrazione politico-territorale che garantisce i particolarismi delle minoranze religiose, sia pur su base subordinata. I cristiani di Transgiordania – censiti in meno di tremila sotto il regno di Solimano II – vengono sottoposti quasi tutti alla giurisdizione del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, che però non riserva loro alcuna cura pastorale. Nell’anarchia che continua a segnare la vita della regione, le tribù conservano il proprio tenue legame d’appartenenza al cristianesimo più che altro come segno di differenziazione rispetto agli altri clan tribali di fede islamica. «I beduini cristiani di Giordania, non meno bellicosi dei loro vicini musulmani, sapranno farsi rispettare. Quanto alle tribù troppo vulnerabili, è facile per loro mettersi sotto la protezione di tribù musulmane più potenti, pagando un’imposta» (J.P. Valognes, Vie et mort des chrétiens d’Orient, Fayard, Parigi 1994, p. 618).
     
 

Per costruire chiese e scuole l’amicizia con gli sceicchi locali e coi funzionari turchi doveva essere comprata con qualche dono. Tutta l’abilità consisteva nel mantenere questa generosità entro limiti ragionevoli

      Sante mazzette 
      A metà dell’Ottocento le Chiese cristiane di Palestina – latini, greco-cattolici, anglicani – con il consenso della Sublime Porta si spingono al di là del Giordano in cerca dei propri fedeli autoctoni. Il Patriarcato di Gerusalemme si mostra presto come la realtà pastoralmente più dinamica. Grazie soprattutto alla fondazione delle prime scuole, missionari pii e scaltri dalle lunghe barbe incolte – tra i quali Jean Morétain, Giuseppe Gatti, Alessandro Macagno – vivono un’avventura apostolica unica ed esaltante tra politici corrotti, tribalismi barbarici e fanatismi religiosi, in un ambiente chiuso e primitivo. «Dicendo il Dominus vobiscum e predicando ai miei parrocchiani, guardavo in basso e vedevo più corna e teste di animali che di fedeli», racconta padre Morétain descrivendo la sua prima messa a Salt, celebrata in una casa di cristiani che fungeva anche da stalla. Per costruire chiese, scuole e altre opere, si deve spesso venire a patti anche con l’ingorda corruzione delle autorità turche della regione. «Secondo usi e consumi consolidati», scrive Pierre Médebielle nella sua storia della missione di Salt, «l’amicizia indispensabile con gli sceicchi locali e coi funzionari turchi doveva essere comprata con qualche dono. Tutta l’abilità consisteva nel mantenere questa generosità entro limiti ragionevoli».
      Già allora, nelle relazioni con la maggioranza musulmana, l’impermeabilità religiosa è un tabù condiviso da ambo le parti: sempre Médebielle racconta di un cristiano che nel 1882 aveva decapitato con le proprie mani la figlia colpevole di essersi concessa a un musulmano. Ma fatto salvo il divieto di tentare conversioni, la convivenza scorre abitualmente tranquilla, con punte di reciproca affabilità: come quando uno sceicco di Karak scrive al patriarca di Gerusalemme chiedendogli l’invio di un prete per la cura dei suoi concittadini cristiani. La fragile pax religiosa si rompe qua e là per l’esplodere di faide tribali o per il fanatismo di qualche capo musulmano. Ma le comunità cristiane pagano soprattutto i contraccolpi delle politiche occidentali in Medio Oriente. La Prima guerra mondiale offre il pretesto per le più violente rappresaglie anticristiane nella regione, coi turchi che aizzano i musulmani alla razzia, e gran parte dei cristiani costretti a fuggire al seguito delle truppe inglesi. Il ritorno, a guerra finita, offre uno spettacolo desolante: le chiese trasformate in stalle, le case religiose e le scuole distrutte. Una lettera di Bishara Farwagi, a quei tempi parroco di Salt, dà un’idea della situazione: «La vista di Salt fa pietà. Fuheis brucia ancora e il governatore mi dice che è ridotta a un ammasso di rovine. […] Tutto ciò richiede nuove energie».
     
 
Re Abdullah II e la principessa Rania con i capi delle Chiese cristiane di Giordania, in una foto del 2001. Il primo a sinistra è Georges El-Murr, arcivescovo di Petra e Filadelfia dei Greco-melkiti
      Tra re Hussein e l’Olp
      La Giordania di oggi è solitamente annoverata tra i Paesi islamici “moderati”. Eppure il Regno hashemita, nato sotto la tutela del precedente protettorato britannico della Transgiordania, non ha mai messo in ombra la propria fisionomia di Stato musulmano. Nella nazione, retta da una dinastia che legittima il proprio potere sulla base della propria discendenza in linea diretta da Maometto, non hanno mai attecchito le teorie laicizzanti e progressiste del nazionalismo panarabo che fino agli anni Settanta dilagavano nei Paesi vicini, dalla Siria, all’Egitto, all’Iraq. E quando altri Paesi arabi scatenavano campagne poliziesche contro i Fratelli musulmani, in Giordania i militanti del movimento di rinascita islamica e anche i rigoristi salafiti hanno sempre goduto di piena libertà d’azione e di propaganda. La compenetrazione tra religione islamica e istituzioni dello Stato si attua senza ripensamenti. Il gran muftì e gli imam delle moschee sono nominati dal potere civile, che sorveglia le loro attività. Gli alti dignitari islamici vengono consultati per giudicare la conformità delle decisioni governative ai precetti coranici.
      I cristiani di Giordania non hanno mai sollevato obiezioni di principio davanti alla legittimazione islamica dell’assetto istituzionale, limitandosi ad approfittare dell’applicazione “moderata” delle regole coraniche da parte dei regnanti. L’islam è religione di Stato, ma la Costituzione del 1952 sancisce l’uguaglianza di tutti i giordani davanti alla legge senza discriminazioni fondate «sulla razza, la disciplina e la religione». Sono garantite «la libera espressione di tutte le forme di culto e di religione, in accordo con i costumi osservati in Giordania», e anche la libertà d’insegnamento («le Congregazioni avranno il diritto di stabilire e di mantenere le loro proprie scuole per l’educazione dei propri membri», recita l’articolo 19).
      Nelle tempeste e nei passaggi insidiosi attraversati dalla Giordania negli ultimi decenni, le minoranze cristiane hanno solitamente manifestato un leale e riconoscente ossequio verso la dinastia hashemita. Le ricorrenti ondate di profughi palestinesi, in fuga dai territori occupati da Israele, hanno progressivamente e irreversibilmente modificato il profilo etnico-demografico della nazione. Negli anni Sessanta, anche alcuni cristiani palestinesi di Giordania – come il marxista Nayef Hawatmeh, nativo di Salt – figuravano ai vertici dell’Olp e delle altre organizzazioni palestinesi – vero Stato dentro lo Stato – che re Hussein fece smantellare ed espellere dal Paese nel famoso “settembre nero” del 1970. Ma quello è stato l’unico momento in cui tra alcuni sudditi cristiani di origine palestinese si è registrata un’oscillazione tra la simpatia per la dinastia musulmana “protettrice” e l’attrazione per la militanza politica rivoluzionaria che sembrava puntare al rovesciamento della monarchia.
     
      I violini di Anjara
      L’esito paradossale di tanta condiscendenza dei cristiani giordani davanti alle circostanze storiche è una visibilità pubblica e una rilevanza politico-sociale di certo sproporzionate se si tiene conto dell’esigua percentuale numerica dei battezzati nel Paese.
 
Ragazze cattoliche irachene partecipano alla messa nella parrocchia di Cristo Re a Misdar, nel centro di Amman
      In Parlamento 9 dei 110 seggi sono riservati ai cristiani. È cristiano l’attuale ministro del Lavoro Bassem al-Salem, e precedenti governi hanno avuto fino a tre ministri di fede cristiana. Ci sono cristiani negli alti ranghi dell’esercito, nella corte reale, nell’aministrazione della giustizia, ai vertici di imprese e banche nazionali. Sono cristiani i giornalisti Fahed Alfanek, Tarek Masarwa e Salwa Amarin, tra i più influenti del Paese. Eppure – ulteriore paradosso  – proprio questo gratificante status sociale guadagnato senza sgomitare, senza estenuarsi in battaglie identitarie da minoranza in lotta, finisce per alimentare in alcuni cristiani delle classi alte una certa sindrome da élite assediata davanti ai fenomeni allarmanti che prendono forma nel tessuto sociale del Paese, quel grumo di frustrazioni e risentimenti, disoccupazione endemica e impotenti pulsioni consumiste, che nelle periferie depresse degli agglomerati urbani frantuma le antiche tradizioni tribali beduine e si aggrappa agli slogan risentiti dell’ideologia islamista. Abu Musab al-Zarqawi, l’ambiguo bandito jihadista che la strategia Usa ha trasformato in mito mediatico, indicandolo come l’anello di collegamento tra al-Qaeda e il regime iracheno di Saddam Hussein, era nato e cresciuto a Zarqa, negli anni in cui la periferia della “Chicago di Giordania” si gonfiava delle baracche dei campi profughi palestinesi.
      Niente di strano, dunque, se le famiglie cristiane ricche di Giordania si mostrano insofferenti del sentimento di inquietudine che avvolge il loro futuro e mandano parecchi dei propri figli all’estero. Così, senza apparenti pressioni, anche l’emigrazione dei cristiani giordani dà il suo contributo alla silenziosa estinzione delle comunità cristiane nei Paesi arabi, un rimosso effetto collaterale anche delle sconsiderate geopolitiche occidentali in Medio Oriente.
      Ma non tutti possono andar via. I bambini della scuola di Anjara, poi, non ci pensano proprio. Ora che padre Hugo ha rimediato anche due violini e ha ingaggiato come maestro il direttore musulmano della banda militare, vorrebbero passare tutti i pomeriggi giocando a diventare grandi musicisti.
     
     
     
            OCCASIONI DI CARITÀ
     
      Per sostenere le scuole del Patriarcato latino in Giordania si possono seguire varie modalità (gemellaggi scolastici, sostegno finanziario a distanza di singoli studenti). Per informazioni si può contattare padre Hanna Kildani (e-mail:kildani@wanadoo.jo) o Nader Twal (e-mail: ntwal@hcef.org).
      Si possono anche inviare offerte su un conto bancario presso la Jordan National Bank
     
      Intestazione:
      General Administration-Latin Patriarchate Schools;
      Jordan National Bank
      c/c bancario 5002301035500443-04;
      Swift Code: JONBJOAX;
      Branch: Private Banking Branch.
     
      Le Suore della Famiglia religiosa del Verbo Incarnato ospitano nella loro casa di Anjara dieci bambine orfane o provenienti da situazioni familiari problematiche. Per informazioni su tale iniziativa si può contattare il parroco Hugo Alaniz (hugoalaniz@ive.org).
      Si possono anche inviare offerte al conto bancario aperto presso la Bank of Jordan
     
      Intestazione:
      Patricia Carbajal;
      Bank of Jordan
      c/c bancario 0013030870640001;
      Swift Code: BJORJOAX;
      Branch: Ajlun Branch.
 

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